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Raffaele Fusco  

Il terremoto e il Vulture

e Un episodio del terremoto

finito di stampare il 31 marzo 1972

Queste 'righe' sono estratte dal libro del prof. Luigi Chicone

 

 

Il  suo  scrivere naturale e semplice  è  inondato  di   una  umanità  profondamente sentita; basta  leggere Il terremoto e  il Vulture,   La zingarella,   In morte di Assunta,   L’agricoltore,   Il fabbroIl pastore, e tanti poemetti di cui il Fusco era solito  fare  più  copie e regalarle agli amici. Un poeta pubblicista, per la sua volontà di scrivere  per gli altri, di scrivere  per documento:  perciò  poeta  sociale; così lo definì  Aldo Vella nel suo interessante commento  al poemetto in vernacolo  Lu puorc,  in occasione  della  commemorazione  del   Nostro che la sezione lacedoniese  del  Centro Studi  E.Mattei  fece il  21 agosto 1964  nel   salone  Bonavita.  La produzione in versi del Fusco è ricca di motivi  autobiografìci,  morali,  sociali,  politici; dal rimpianto per  la gioventù  consumata nelle case penali,  all’esaltazione della  libertà; dall'opposizione intransigente alla politica fascista, all'auspico di un'era di pace e di fratellanza, “la Primavera e la Guerra”.  

La sua  umanità si  insinua delicatamente tra le quartine e le terzine per poi esplodere   e  diffondersi   in  tutta  l'atmosfera  circostante,   con  quel  tono  che non riesce sgradevole all’orecchio.      In campo letterario rimane un isolato,perché nessuna corrente letteraria l' ha mai influenzato; però egli nella sua forzata solitudine ha profondamente riflettuto, e, meglio di ogni altro ha saputo interpretare e tramandarci il suo mondo, comprendere le amarezze, le privazioni, la povertà dei suoi simili che vivevano nello stesso ambiente, le gioie che gli umili e poveri contadini lacedoniesi di alcuni decenni fa provavano, quando si prevedeva un buon raccolto o si era in festa, perché si doveva ammazzare il maiale che come dice l'amico Vella è il simbolo di una genuina  e caduca felicità in cui un popolo di diseredati si rifugia, almeno per un momento dimentico dei propri secolari dolori, del proprio destino di eterni servi della gleba.  

Nel poemetto "Il terremoto e il Vulture" rievoca un episodio dolorosissimo della storia di Lacedonia che fu orribilmente sconvolta da una improvvisa ed imprevedibile forza della natura, che gettò nella disperazione e nel lutto la popolazione. La semplicità dei versi di questo poemetto, ha una forza descrittiva tale da provocare, ancora oggi, specialmente nei superstiti di quella fatale notte del 22-23 Luglio 1930, brividi di paura e momenti di commozione. Con la pubblicazione di questo modesto studio spero di fare cosa gradita a tutti i lacedoniesi, in special modo agli amici del Fusco che ancora ricordano e tappe più salienti  della sua vita le riunioni segrete (era un fervente antifascista), le cene durante le quali non mancavano versi improvvisati.  

Ancora oggi c'è tra essi chi sa a memoria qualche suo "verso, una strofa, magari un sonetto, e tutto ciò in effetti, è la vera testimonianza che la semplicità del suo linguaggio ha fatto presa nella vita del suo paese, dettando a tutti  norme di vita morale e sociale.   E' doveroso  da  parte  mia  a   questo  punto  ringraziare  gli  amici  del  Circolo    

Il Risveglio'', 

i quali,  moralmente  e  materialmente  mi  hanno  dato  un  valido aiuto  per  la pubblicazione di questo mio lavoro.

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Raffaele nacque il 9 aprile 1870 a Lacedonia da Fusco Nicola ed Attamante Serafina.  Era il quarto di sette figli. I suoi genitori gli fecero apprendere, dopo aver frequentato la quinta elementare, il mestiere del calzolaio presso Alessandro Giannetti, padre di zio Angelomaria. Amava intrattenersi coi gli amici e chiacchierare tra un bicchiere di buon vino e un boccone di pane e companatico; e furono proprio i fumi del vino a dare una svolta diversa alla sua focosa giovinezza. Si trovava il Fusco in compagnia di amici nella cantina dei Franciosi alle spalle della chiesa di San Nicola, a gustare il buon vino, che da alcuni giorni era stato messo in vendita. Nel gruppo di amici c'era anche un giovane abbastanza collerico, che, non tollerando che Raffaele nel gioco della passatella, l’avesse più volte portato a ''secco'', durante l'accesa discussione che ne scaturì, lo colpì violentemente con un bastone  alla testa. Volarono minacce ed improperi e gli amici dovettero faticare per dividerli. Lu carunares – così chiamavano un certo Peppino, figlio di Angeluzzo - abbandonò la compagnia e precipitosamente sì recò a casa sua; poco dopo comparve sulla soglia della cantina con atteggiamento provocatorio sicché tra i due riprese la discussione; ad un tratto il Fusco estrasse dalla tasca una lama ben  affilata, e lo colpì più volte. Dopo il folle gesto, si dette alla fuga per la campagna; errò per tutta la notte, trovando rifugio nelle grotte. In cuor suo sperava di non averlo ucciso, ma la speranza cadde, quando le campane della Cattedrale,dopo aver suonato il mattutino ‘suonarono a morto’.  Poco più tardi lo raggiunse un suo compare, che l'aveva cercato per tutta la notte; costui gli consigliò di trovare temporaneamente rifugio in qualche casa colonica dove i suoi fratelli sarebbero andati a fargli visita.  Il Fusco riferì al suo compare di non voler fare la vita del latitante e che l’indomani si sarebbe presentato al maresciallo dei carabinieri.  Il giorno dopo, infatti, si presentò in caserma e confessò […]. Rimase per trenta giorni nel carcere di Lacedonia, poi fu trasferito in quello di Avellino.  Prima del processo il Fusco prese visione di una copia della requisitoria; l’accusa era pesante: omicidio volontario, punibile con l’art.364 del Codice Penale. Tutti i testimoni, come gli aveva riferito la madre, si mostrarono contrari. Nell’aula, il giorno del processo, il Fusco scorse la sua mamma e la sua famiglia

Che a pezzenti somiglia.

Si sono appartati a quel posto,

per non altercarsi con gli avversari a costo,

ascoltano tutto con dolore atroce:

portano la croce

[ Dal poema autobiografico Il recluso e la prigione ]

 La sentenza  recitava:  In nome di Sua maestà  Umberto Primo  per  grazia  di  Dio  e  volontà della  Nazione … la Corte condanna  tal  di tale  (Raffaele Fusco) a spese e danni e a sedici anni. Il direttore gli permise di tenere nella cella diversi libri: lesse argomenti di vario interesse e diventò un autodidatta. Dopo vari trasferimenti di carcere (Napoli, Porto Longone -oggi Porto Azzurro, isola d’Elba-)  arrivò a Piombino dove scontò gli ultimi sedici anni. Finalmente giunse il giorno della scarcerazione; in salute stava discretamente bene, moralmente invece si sentiva un morto.

  Il mondo è fatto per chi lavora in pace,

per l’uomo quieto, che vede, che sente, e tace

Chi fa la lite e non lavora e frequenta le cantine

Fa mala fine.

Con questa profonda considerazione termina il lungo poema autobiografico.  Tornato a Lacedonia andò ad abitare in via Rua Grande, 23.  In seguito al terremoto del 23 luglio 1930 la sua casa crollò e fu costretto a trovar rifugio altrove nell’attesa che fosse riparata.                                                                 

  Addio casa in cui son nato,   

Dolce asilo, grato albergo mio;

Addio ogni oggetto amato

Abbandono tutto e dico:addio !

[Così scrisse nella poesia Terremoto e guerra].

Prima dell’inverno poté rientrare nella casa paterna rimessa a nuovo anche grazie all’interessamento del podestà Cerchione di cui divenne amico di fiducia. Con l’avvento del fascismo la sua casa fu assiduamente frequentata da giovani, ed erano molti, antifascisti. Il Fusco, che con Mussolini, prima della fondazione dei Fasci, era addirittura in corrispondenza epistolare, si sentì tradito in quanto questo suo amico politico aveva abbandonato le idee repubblicane ed anticlericali, facendo in tal modo il gioco dei più abbienti che appoggiavano gli squadristi per liquidare il socialismo. Quando apprese che Mussolini aveva fatto la marcia su Roma così il Fusco scrisse:

 La marcia su Roma del Fascismo,

Forma un gesto di ver buffonismo .

…Da questa marcia il buffone,

Crede d'essere un Napoleone!

...II Duce somiglia a don Chisciotto!

[Dalla poesia: La Marcia su Roma]

 Per queste idee contrarie alla politica nazionale il Fusco fu costantemente sorvegliato dalle autorità fasciste locali, le quali aspettavano l'occasione per mandano al confine. Avvisato dall'Arciprete Domenico Monaco e anche da Vincenzo De Gregorio, prevenne la mossa dei fascisti, autoconfinandosi. La mattina presto - racconta Brigida Di Ninno - insieme ad Antonio Russo, caricammo sul traino di Rocco Quatrale  zio Raffaele con quelle poche cose che gli potevano essere utili e ci avviammo verso la casa colonica di Gaetano Megliola, suo nipote, in contrada ‘Forna’. Qui Raffaele si fermò fino al 1936 e, durante la sua permanenza nella mia ''masseria'' - riferisce Gaetano Megliola - quasi sempre venivano a fargli visita gli amici. Nella poesia  Il solitario  composta durante il forzato esilio il Fusco scrive:

  Qui non trovo dei nemici,

Non ascolto  calunnie infamanti…

 A diretto contatto con la natura la sua vena poetica si rafforzò; scrisse molti componimenti in versi facendone omaggio agli amici; infatti nella poesia sopra citata, più innanzi si legge:

  …Ai miei amici e benefattori

Questi lavori in omaggio

Invierò, quali umili fiori…

  Di tanto in tanto egli veniva in paese specie durante la festa di  San Filippo.            

  Alla festa io son venuto

del nostro caro Protettore,

Salutar gli amici ho voluto

Con affetto e con cuore

[Dalla poesia: Omaggio agli amici]

 Vennero gli anni della guerra. Il Fusco, ormai vecchio e stanco, tornato nella sua casa paterna ebbe la forza di scrivere ancora; ed a proposito della guerra  e  di Mussolini che la volle scrisse:

Sta guerra è del terremoto peggio

Il furbo sciacallo

Sa imbrogliare il pappagallo.

Accende il fuoco e sta lontano

Usa chiacchiere e non mano!

Arma e provoca il cimento,

Accende la miccia, sta contento,

Attizza, ravviva forte il fuoco ,

Ma sta distante, sta col cuoco!

…………………………

Il pazzo che pace turba è demonio;

Deve rinchiudersi in manicomio!

Col finir della guerra anche  la vita terrena di Raffaele stava lentamente spegnendosi. Ma non appena seppe della caduta del fascismo scrisse  La  fine  del  manicomio ! rallegrandosi che gli illustri uomini esiliati stavano facendo ritorno in patria. Nel 1945 fu colpito da una  paralisi, che lo condannò a giacere nel letto; tuttavia trovò la forza di scrivere ancora componendo Tribolazioni in cui afferma:

Sono,  però stanco di soffrire

Voglio quanto prima morire

…Pronto sono, senza ritegno.

Alla morte io mi rassegno,

Con volontà dico: io vengo!

Durante la sofferenza più volte si guardò intorno e più volte amaramente dovette constatare che dei suoi numerosi amici non si vedeva neppure l’ombra:

  Al letto ho però pur notato,

che nel bisogno sei abbandonato,

che l’amico lo trovi al tuo lato

sol se stai in buono stato…

 Stanco di soffrire ebbe anche momenti di sconforto:

  Basta ora io vorrei morire,

Non mi sento più di soffrire;

…venga morte presto a levarmi

Venga parca…di sorpresa e non piano piano

  Si spense il 21 novembre 1946 alle ore cinque, nella casa paterna posta in via Rua Grande 23.

*Non abbiamo pubblicato tutto il poemetto


 

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Ultimo aggiornamento: 13-12-06